All’uscita della stazione della metropolitana in uno dei quartieri più popolosi del centro di Napoli ho incontrato la collega Francesca, che come me aveva risposto all’appello della responsabile regionale della FISieo (allora FIS), per un progetto di volontariato presso Saman La Stella, comunità per il recupero dei tossicodipendenti. In quel groviglio di vicoli di Materdei tra carretti della frutta, motorini, clacson e paletti troviamo in un palazzotto fatiscente, ma con tracce di antica bellezza e ricchezza barocca, forse vestigia di un passato importante, la sede della Comunità. Conosciamo così, oltre al responsabile, anche i ragazzi che dedicano gran parte del loro tempo alla Comunità ed i suoi ospiti. Siamo accolti con dei grandi sorrisi e, leggendo forse le domande dei nostri sguardi, i nostri dubbi, le insicurezze (paure?) ci guidano amorevolmente verso il nostro primo incontro con la piccola comunità di persone, che, vittime della esperienza della tossicodipendenza, stanno vivendo un approccio difficile, incerto, lungo e doloroso per lo sdoganamento verso la libertà e l’amore per la vita e per sé stessi.
Non ho mai avuto un contatto così diretto con il mondo delle comunità, né tanto meno con i “tossici” ed il loro mondo, anche se in passato il mio lavoro, in qualche modo, mi ha portato spesso al contatto ravvicinato con il loro sangue da esaminare per le diagnosi di epatite C, piuttosto che epatite B, o HIV, o altri markers o transaminasi. In quel primo incontro vedevo i loro volti, cercavo i loro sguardi, stavano lì, dichiarati tossici in terapia e non nascosti dall’anonimato di chi incrocia i tuoi passi per strada.
Non erano, come invece mi prospettava un mio falso stereotipo mentale, tutti giovani: potevo incrociare lo sguardo di un figlio o di una sorella o di un compagno di un tempo, anche se su alcuni volti si poteva leggere la storia del tempo passato nei tormenti di una vita sballata, su una pancia troppo gonfia la devastazione del fegato, sulle palpebre abbassate di una ragazza un percorso in un tunnel senza luce.
Anche il mio arrivo all’appuntamento è stato in qualche modo tormentato dalle domande che mi ponevo, dai miei pregiudizi, dalla mia controllata distanza da un mondo che ho sempre ritenuto violento, disperato, distruttivo e pericolosamente trasversale alla vita di tutti, compresa quella dei nostri figli. Ero a disagio, avevo quasi paura, volevo non essere più lì. Che c’entravo io con quel mondo? Cosa facevo lì? Cosa avrei potuto fare? Cosa avrei potuto dare a quello sguardo spento del ragazzo che mi stava di fronte, a quell’uomo claudicante che mostrava molti più anni di quanti ne aveva realmente, a quella donna che dopo scoprirò addirittura nonna? Cosa avrei potuto fare per quella signora con gli occhi cerchiati di nero, dentro cui non riuscivo a cercare lo sguardo, o ancora per quello tutto schizzato, quell’altro che parlava sempre o quella signora in carne che giocava con i suoi capelli come una bambina con quelli di una bambola?! Cosa avrei potuto fare con il fardello dei miei pregiudizi, senza la libertà dell’essere qui con la mente e il cuore liberi di tanto peso?
Mi ha salvato il contatto profondo con il loro hara, l’addome, che è sede della centralità emotiva dell’essere e di tanto altro. Durante i trattamenti che seguirono, mi riecheggiavano nella mente le raccomandazioni dei miei insegnanti, le sensazioni dei primi contatti e quel senso di fusione, di unità nuova che si formava tra me e loro. L’ascolto di hara e di me stesso in quel tocco mi apriva il respiro nel cuore.
Pian piano con il tempo ho imparato a conoscere quei corpi sofferenti, induriti, bloccati, quelle articolazioni doloranti, quelle spalle che facevano blocco unico con il collo e con la testa, quei tendini tesi come corde, quei movimenti non fluidi, non più armoniosi, quella scorza dura esterna protettiva. Eppure, quando si riusciva ad entrare in contatto profondo, si apriva tutta la fragilità dell’essere, si apriva uno scrigno, dove il calore ed il battito della vita erano ancora lì, dove si sentiva realmente zampillare la vita con tutta la tragedia della lotta impari che sosteneva.
In quei trattamenti ho usato molto il contatto, lungo, profondo, su un hara, che mi ribolliva sotto, ponendomi in ascolto di ogni pur lieve movimento, che poteva nascere da dentro come risposta alla mia offerta, al mio stimolo, al mio richiamo. Il movimento affiorava, saliva dalle profondità nascoste della persona e mi portava il suo messaggio. Era una richiesta di aiuto? Era un aprirsi, un lasciarsi andare, un offrire la propria intimità al contatto, un manifestarsi per come si era dentro. Affiorava un bisogno fisico, o erano le emozioni che si muovevano, o addirittura i tormenti di un’anima, il bisogno di un sogno? Non lo so, forse tutto questo o parte. Mi lasciavo guidare dalle mie sensazioni, da immagini che mi affioravano, forse mie o forse sue, e, portando il cuore, mi ritrovavo a trattare Mastro del Cuore, piuttosto che Grosso Intestino o Milza o altro meridiano. Spesso usavo le risposte alla pressione delle aree di valutazione addominale, ma il più delle volte mi lasciavo guidare dalle mie sensazioni nello sviluppare un progetto di trattamento, da quello che il tocco mi spingeva a fare o da quello che il mio cuore leggeva nei loro occhi.
È stata una esperienza bellissima durata un paio di mesi. Ho conosciuto umanità e vite incredibili, che esprimevano bisogni esageratamente minimi, ma così difficili da esaudire, ho aiutato qualcuno a stringermi la mano ed altri a liberare il loro intestino bloccato dal metadone, forse qualcuno a volersi un po’ di bene, ma tutti loro sicuramente hanno aiutato me a liberarmi un po’ del grosso fardello dei miei pregiudizi.
Angiolino Ferraro Caserta, 6 novembre 2008